California, valle del Sacramento, 24 gennaio 1848, James W. Marshall stava impiantando una segheria sulle colline ai piedi delle Sierras quando la sua attenzione fu attratta da alcuni riflessi provenienti dal letto del fiume: era oro!
Quando i primi resoconti apparvero sui giornali non destarono particolare interesse nell’opinione pubblica, poi, improvvisamente, tutti vennero colti dalla febbre dell’oro: «Il 15 giugno San Francisco era una città deserta, con le case e i negozi vuoti, e tutti coloro che potevano camminare, cavalcare, correre e trascinarsi erano in fuga verso le Sierras».
E d’altra parte come avrebbe potuto essere diversamente quando si diceva che, in pochi giorni, si poteva trovare oro per migliaia di dollari (a quell’epoca la paga di un operaio era di un dollaro al giorno), e quando, per scherzo, qualcuno raccontò che «un minatore stava a sedere da 67 giorni su una pepita di 839 libre per non farsela rubare e che offriva 27.000 dollari per un piatto di porco e fagioli» trovò chi gli credette!
E così, con ogni mezzo, uomini di ogni ceto sociale e professione, senza nessuna cognizione in merito e non paventando le difficoltà che avrebbero incontrato lungo il cammino, si riversarono attraverso il Missouri «benché i traghetti funzionassero 24 ore al giorno, non era affatto raro dover aspettare quindici giorni». Si stima che più di 80.000 persone giunsero in California nel 1849, ma almeno 5000 non ce la fecero. Il 70% erano americani, gli altri arrivavano dall’Europa (nel luglio del 1902 l’italiano Pedroni scoprirà uno dei più ricchi giacimenti auriferi dell’Alaska), dalla Cina, da ogni dove.
E quando finalmente raggiungevano l’agognata meta ecco che si trovavano a pagare, in questo caso possiamo davvero dire a peso d’oro!, il vestiario, le attrezzature, il cibo («Sugo di tarantola» veniva chiamato un liquido spacciato per whisky perché «quando i ragazzi avevano bevuto bene… riduceva moribondi i serpenti e le tarantole che li mordevano»). Ed infine le case da gioco, piene di giocatori professionisti che svuotavano facilmente le tasche dei minatori, ma che importa, di oro ce ne era così tanto e allora tornavano ai loro fiumi cantando una canzone che ancora oggi conosciamo «Oh Susanna, non piangere per me…».
Tutto questo comportava naturalmente un tasso di criminalità enorme: «Le sparatorie erano così frequenti che nel 1860 il cimitero di Tucson contava solo due tombe di persone defunte di morte naturale». Nacquero a questo punto delle forme di autogoverno dei minatori i quali stilarono un sorta di “codice minerario” che regolava estensioni, confini, diritti e queste norme, che riguardavano tutti gli aspetti della vita e delle proprietà, venivano fatte rispettare rigidamente, anche se un po’ troppo spregiudicatamente, da giudici e giurie eletti dagli stessi minatori.
(continua)
Tutti i riferimenti sono tratti dal libro di Ray Allen Billington «Storia della conquista del West», edizioni Odoya srl, Bologna 2009.
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